Un bambino, l'esilio e "l'estrema fortuna" di perdere tutto.
 È il nuovo romanzo del premio Pulitzer.
Alla fine della vita un uomo fortunato può contare un pugno di amici. 
Io, per esempio, potrò nominare Paolo, Giorgio, John Irving, Philiph 
Roth. E Richard Ford. L'ho conosciuto ai tempi de
L'estrema fortuna.
Mi hanno scaldato i suoi
Incendi.
Ho condiviso con lui
Infiniti peccati,
ma soprattutto la vita così universale di Frank Bascombe, giornalista sportivo che diventa agente immobiliare (da
Sportswritera Indipendence Day).
Tuttavia Ford rimane un prodotto americano: sa di spazi eppure riesce a 
chiudere mondi in una frase. Quando leggo i suoi libri metto molte 
"orecchie" alle pagine. Per lo più segnalano frasi icastiche alla fine 
di un capitolo. Una l'ho ricopiata su un cartone e incorniciata davanti 
al letto della casa dove abito. Dice: «Ho affrontato la rovina. Ho 
evitato il rimpianto. E sono ancora qui a raccontarlo». Lui parla 
esattamente di questo: come ricomporre le vite dopo che, 
inevitabilmente, si sono spezzate. Succede anche nel suo ultimo romanzo,
Canada
(Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani).
È noto: ogni scrittore tende a fare variazioni sul tema, tutta la sua 
opera ruota intorno a un fulcro, una situazione chiave che fa da motore 
per ogni trama. Per Richard Ford è lo spaesamento. Quando la tua donna 
ti ha lasciato, il tuo migliore amico ti ha tradito, le tue speranze 
sono nel retrovisore, allora comincia
L'estrema fortuna.
Anche Frank Bascombe è spaesato, traumatizzato dalla morte del figlio, 
impossibilitato a condividere altro che questo dolore con la moglie e 
quindi costretto al divorzio, in via di separazione anche dal proprio 
lavoro. La versione cinematografica di questi personaggi sarebbe il 
magnifico
Robert Redford dei
Tre giorni del condor,
il sedentario impiegato della Cia che trova i colleghi morti ammazzati 
al rientro dalla pausa caffè, capisce di non potersi più fidare 
dell'agenzia, degli amici, di nessuno e ripone la fiducia in una 
sconosciuta che fotografa panchine vuote. La sua estrema fortuna.
Anche
Canada ha
un protagonista spaesato, un ragazzino che i genitori abbandonano nel 
modo più improbabile: pur rispettabili, vanno a fare una rapina in banca
 e si fanno arrestare. Sottolineatura di pagina 9: «Comunque, dare ai 
genitori la colpa delle difficoltà della propria vita alla fine non 
porta da nessuna parte». Così è: interi capitoli
di storia sono costruiti su questo alibi, ma la storia è nostra, nostra è
 la responsabilità. Qualunque sia l'evento che ci colpisce: un lutto 
come un abbandono. C'è il trauma, ma c'è la reazione. E quella, siamo 
noi. Non il Dna, non la stirpe che ci ha preceduto. Siamo il movimento 
che sappiamo imprimere al percorso della nostra vita, non l'inerzia a 
cui la releghiamo, giacché (sottolineatura di pagina 304): «Le cose 
accadono quando le persone non stanno al loro posto, e il mondo va 
avanti e indietro in base a questo principio». Esattamente e 
semplicemente così. L'ordine delle cose è anche la loro morte.
L'evoluzione delle sorti è determinata da uomini fuori posto.
Fidel Castro incontra il dottor Ernesto Guevara su una terrazza 
argentina e nasce la rivoluzione cubana. Un marito convince la moglie 
casalinga ad accompagnarlo nel North Dakota per una rapina e i loro 
figli non cresceranno più come ogni altro bambino. Saranno spaesati, 
indotti a cercare nell'oscurità l'abbraccio reciproco, proibito ma 
salvifico per il tempo necessario a scavalcare il precipizio della 
solitudine. Dopodiché, la sorella se ne andrà, il ragazzino resterà 
ancora più solo e verrà portato da un'amica di famiglia
oltre il confine, in Canada, per essere affidato a uno sconosciuto.
Il Canada è il metaforico territorio dell'esilio. È una distesa 
spopo-lata, dove non c'è casa, non c'è famiglia, non c'è futuro. Non 
fosse che il futuro è la vita stessa, giorno dopo giorno dopo giorno. Il
 Canada è un luogo dove tutti, prima o poi, passiamo (o finiamo). È la 
terra delle incertezze, dove rimettere insieme quel poco che ci resta 
alla fine del tornado. E quel poco, solitamente, non è altro che: un 
corpo, la volontà di esserci nonostante tutto, la capacità di immaginare
 oltre. Quella che chiamiamo maledizione è, a guardarla con occhio
disincantato, proprio l'estrema fortuna. Condor diventa un genio 
inafferrabile. Il ragazzino cresce, ragiona, si salva. Lo sconosciuto 
che lo accoglie gli fa un domanda chiave e gli dà una risposta. È la 
sottolineatura di pagina 103: «Cosa significa avere un senso? Significa 
che accetti le cose. Se capisci, poi le accetti. Se le accetti, 
capisci».
Tutto quel che Richard Ford ha scritto ruota intorno a questi due temi: 
spaesamento/accettazione. L'una come superamento dell'altro. Alla fine 
del romanzo il ragazzino, divenuto un anziano professore, invita i suoi 
allievi a «non cercare troppo accanitamente significati
nascosti od opposti - anche nei libri che leggono - ma a guardare nel 
modo più diretto e possibile le cose che possono vedere alla luce del 
giorno. Nel processo di spiegare a te stesso le cose che vedi, riuscirai
 sempre a trovarvi un senso e a imparare ad accettare il mondo».
Non c'è altro. Siamo qui, sperduti in Canada, io che leggo Ford, tu che 
leggi me che ho letto Ford, e non è colpa di nessuno: è stato e basta. 
Accettarlo è il solo modo di capirlo. Capirlo è il solo modo di andare 
avanti. Affrontando la rovina. Evitando il rimpianto. Continuando
a raccontare.
storia avvicente composta in tre parti. vite separate  e poi per caso ritrovate. ford riesce a compiere uno dei suoi miracoli letterali.
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